di Federico Triulzi
Il reato di bancarotta è previsto dalla Legge Fallimentare (Regio Decreto n. 267 del 16.03.1942, modificato dal D.L. n. 59 del 3.05.2016) e, in particolare dagli artt. 216 e 217 che contemplano rispettivamente il reato di bancarotta fraudolenta e di bancarotta semplice.
Alla pena prevista per la commissione di uno dei reati di bancarotta fraudolenta, il nostro ordinamento prevede l’aggiunta di una pena accessoria e, precisamente, quella dell'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.
La normativa, fino a poco tempo fa, prevedeva che la durata della pena accessoria fosse predeterminata in maniera fissa ed avesse durata pari a dieci anni. Qualunque fatto di bancarotta, pertanto, veniva sanzionato, oltre che con la pena detentiva in concreto irrogata dal Giudice, con l’interdizione decennale che, spesso, costituiva l’elemento sanzionatorio di maggior impatto per il condannato.
Tenendo presente che le pene detentive inferiori ai quattro anni possono essere sostitute fin da subito con una misura alternativa alla detenzione, frequente era il caso di un soggetto condannato ad una pena contenuta che, pur potendo scontare la pena in maniera non detentiva - cioè fuori dal carcere - ciò non di meno si trovava nell’impossibilità di avviare o proseguire una attività commerciale o imprenditoriale ovvero di trovare occupazione lavorativa di livello dirigenziale.
Per quanto la sanzione accessoria presentasse evidenti profili di connessione con il reato di bancarotta, la determinazione in maniera fissa del periodo decennale di inabilitazione comportava una ingiusta equiparazione tra i soggetti che seppur dichiarati colpevoli venivano condannati ad una pena più bassa in ragione della minore gravità del reato e quelli che, invece, avendo commesso un reato di maggior gravità, venivano condannati ad una pena detentiva più elevata.
Investita della questione, la Corte Costituzionale ha dichiarato, con la pronuncia n. 222 del 2018, illegittimo l’ultimo comma dell’art. 216 del Regio Decreto n. 267 del 16.03.1942 laddove dispone che: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”, anziché: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare gli uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”.
A fondamento di tale pronuncia, certamente innovativa, è stato evidenziato il controverso dettato normativo che non dava compiuta specificazione circa la quantificazione della pena accessoria irrogata a seguito della pronuncia di condanna per il reato in esame. I profili critici evidenziati nella richiesta avanzata alla Corte Costituzionale hanno posto l’attenzione sull’automatismo e l’indefettibilità dell’inflizione della pena accessoria in ordine all’an della sua applicazione, l’ampiezza delle limitazioni ai diritti del condannato discendenti da essa e, infine, in punto di quantum, la fissità della durata, pari a dieci anni.
Tali profili facevano si che la pena inflitta non fosse oggettivamente né soggettivamente commisurata al fatto commesso e penalmente perseguito. Invero, l’assenza di una valutazione del Giudice di merito circa la persona del soggetto attivo nonché le circostanze fattuali che connotano la vicenda rilevante, comportavano proprio una violazione a livello costituzionale dei principi fondamentali del diritto penale.
Invero, come consacrato dagli artt. 3 e 27 della Costituzione, la pena prevista dalla fattispecie incriminatrice deve necessariamente essere commisurata dal giudice in considerazione delle circostanze previste dalle disposizioni di cui all’art. 133 e 133 bis affinché la stessa risulti essere calibrata alla situazione del singolo soggetto. In ragione di ciò, come la Corte Costituzionale ha osservato nella su menzionata pronuncia, le pene accessorie temporanee:
"[…]incidono in modo fortemente limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato, riducendo drasticamente la sua possibilità di esercitare attività lavorative per un arco temporale di dieci anni […]”.
Sulla scia di quanto disposto dal Giudice delle Leggi, sono state molteplici le pronunce della Corte di Cassazione, fino alla pronuncia delle Sezioni Unite del 28 febbraio del 2019 (sent. n. 28910), ove si afferma che anche le pene accessorie di cui all’ultimo comma dell’art. 216 L.F. devono essere determinate dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. e non mediante mero automatismo.
Il rilievo della pronuncia della Corte Costituzionale è di particolare importanza in quanto non si limita ad avere un’efficacia “per il futuro”, imponendo ai Giudici una valutazione sulla quantificazione della pena accessoria, ma incide anche “sul passato” rendendo illegittima la pena accessoria già irrogata in misura fissa e predeterminata con l’effetto di rendere possibile, attraverso la proposizione di un incidente di esecuzione, una rideterminazione della stessa alla luce delle concrete particolarità del singolo caso concreto.
In altre parole, un soggetto condannato per uno dei fatti di bancarotta fraudolenza prima della pronuncia sopra richiamata e quindi condannato alla pena accessoria dell’interdizione per un periodo di dieci anni può richiedere, con un procedimento incidentale, che il Giudice rivaluti l’intera vicenda al fine di rideterminare la durata della sanzione accessoria in maniera non più fissa ma concretamente commisurata alla maggiore o minore gravità del caso concreto.
Avv. Federico Triulzi
Settore penale
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